La “Guerra dei trent’anni” in Italia si è combattuta sul piccolo schermo

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«What is left?». Se lo chiedeva Michele Salvati sul «Mulino» nel 1993. Con il passare degli anni e delle legislature, è sempre più difficile, per la sinistra, trovare una risposta, distinguersi dalla destra per obiettivi di giustizia sociale, e insieme essere interprete della modernità. La distinzione destra-sinistra si ebbe in Italia nel 1994, quando Berlusconi riuscì ad aggregare intorno a un progetto di ispirazione liberale il populismo della Lega e lo statalismo di an. Il primo Ulivo, quello del ’96, grazie anche a una congiuntura internazionale che aveva fatto parlare di Ulivo mondiale, fu il migliore tentativo di far sì che l’equazione politica fosse qualcosa di diverso da una somma che deve superare «quota 50».

Non a caso, prima che il voto di Bertinotti sulle trentacinque ore richiamasse alla realtà dei numeri, e il problema della politica ritornasse ad essere quello di trovare truppe di Valmy per far quadrare la somma, nei due anni del «vero» Ulivo al governo, la questione televisiva e quella connessa del conflitto di interesse furono trattate come temi su cui trovare un’intesa anziché come termini con cui segnare un confine, tanto meno come reticolati con cui difendere una trincea. L’opposizione alla legge Maccanico prima versione fu vivace e ideologica; ma quando venne riproposta divisa in due tronconi, il compromesso fu trovato abbastanza agevolmente. Quando quindici anni fa ci si interrogava su what is left?, si scavava alla ricerca di un fondamento: oggi non c’è più il doppio senso della parola, e left indica solo ciò che è rimasto.

Quindici anni dopo, Salvati fa «il catalogo» delle ragioni che minano la credibilità e l’efficacia del pd: dalle divisioni ideologico culturali, al modello di partito, alla forma di Stato e di governo, alle alleanze, al modo di fare opposizione, e rende pubblico il suo presentimento: «Il mio pd può fallire». Salvati non le nomina, ma accanto a queste ragioni «interne» al partito, ci sono quelle «esterne», che la vita e la competizione politica continuamente propongono: come quella che proprio in quei giorni si abbatte sul pd, la questione morale, e che fa dire a Veltroni «Questo non è il mio partito! » (Ma che differenza tra il «mio» dolente e analitico di Salvati e quello del segretario, tra il sorpreso e l’accusatorio!) Pochi mesi dopo, dimettendosi da segretario, riconoscerà di non essere riuscito farlo, il suo partito. La questione giudiziaria, dagli anni dalla discesa in campo del Cavaliere, era stata per così dire subordinata alla questione televisiva, strumentale a risolverla in modo definitivo: un modo, più praticabile della incompatibilità, più sicuro delle metastasi, in cui pure si erano riposte speranze non segrete. Dalla sme all’avvocato Mills, a questo miravano, secondo Berlusconi, i 789 giudici che si sono «occupati» di lui; il lodo Alfano e la riforma giudiziaria potevano essere letti ancora come difesa da quella minaccia.

Il pd si trova ad essere lui al centro di una questione morale, dalla Campania all’Abruzzo, da Firenze e Genova. Anzi di essere lui «la causa della questione morale che constatiamo ». Mentre molti credevano nel cambiamento con un governo di sinistra, «il volto demoniaco del potere ha preso il sopravvento e si è instaurato il caciccato». Della falsa credenza della propria superiorità, il pd «continua ancora oggi a campare come si campa di un’abitudine adolescenziale con la quale non si sono fatti i conti fino in fondo». Con la magistratura in caduta di credibilità, Berlusconi può riproporne con giustificata enfasi la riforma, iniziando dalle intercettazioni. Il pd ha un interesse vitale a essere della partita: ma non è un interlocutore credibile se solo ora che ha i propri uomini sotto accusa, allenta il rapporto di lunga data con la magistratura, abbandona il giustizialismo e si sposta sulle posizioni di Luciano Violante. E d’altro lato resta esposto al cannibalismo di Di Pietro e delle sue quinte colonne.

«La “questione morale” a sinistra, – scrive Peppino Caldarola, – nasce dal mito più inesplorato. Il vero fine del comunismo non era la società giusta, quella in cui liberi ed eguali si concorre al bene comune, ma la creazione dell’“uomo nuovo” liberato dai bisogni e soddisfatto nelle necessità». Con l’avvento di Berlusconi «la questione morale diventa il conflitto di interesse dell’avversario più temibile e sottovalutato»: a essa si guarda come del mezzo per liberarsi di Berlusconi nello stesso modo con cui ci si sera liberati di Craxi. Invece di

… affronta[re] una revisione coraggiosa dei propri principî, a cominciare dall’antropologia della diversità e dell’«uomo nuovo» per diventare partito della modernizzazione, della rottura dei vecchi schemi, del riformismo coraggioso, [la sinistra] sceglie il prezzo minimo e, accettando la società di mercato, si mercatizza. […] Il professionista della politica diventa imprenditore politico, nasce la politica come «impresa». Un po’ vecchi mediatori dc, un po’ spregiudicati post-craxiani, i leader, grandi e piccoli, della sinistra si buttano nell’affare. Il dalemismo al Sud, il veltronismo a Roma. Non si mettono al servizio dell’impresa, ma fanno nascere una nuova soggettività imprenditorial-politica.

È qui che le ragioni «esterne» si saldano con quelle «interne». Per cui non cambia il dato politico se gli accusati di oggi saranno trovati innocenti domani, o se invece si troverà qualche Mario Chiesa tra di loro: non è per loro che «il pd può fallire», ma per non essere stato capace di elaborare una nuova soggettività politica.

Sa di nemesi storica il fatto che la crisi conclamata del pd con le dimissioni del suo primo segretario sia scoppiata proprio a seguito della sconfitta in Sardegna di chi ha costruito la propria immagine sull’esibizione del rigore e sull’assolutismo delle regole.

Dopo il crollo delle grandi narrazioni ideologiche del passato, la politica italiana ha smesso di pensare in termini di conflitti tra ideali, visioni del mondo. Al di là della «consapevolezza che ogni paese, ogni singola isola di democrazia non può fare a meno di competere nel gran mare del mercato mondiale e non ha molte alternative per farlo», quale pensiero politico siamo stati in grado di elaborare?

Coloro che vogliono liberare la crescita e sono per la competizione e per il merito, alla stessa stregua di quelli che invece dànno voce alle resistenze della società contro le misure competitive e meritocratiche, sono interni all’uno e all’altro schieramento. A indicare gli spazi politici c’è solo «quello che resta», remoto nel tempo e distorto dall’uso, della secolare opposizione destra-sinistra.

La sinistra non si distingue più per gli interessi economici che cerca di tutelare, dato che ormai il voto a destra è largamente diffuso anche tra i lavoratori dipendenti. Non si distingue per la capacità di bene amministrare dato che «la Casta» è dappertutto, e la Pubblica Amministrazione è vista come un corpo a sé stante che persegue i propri obiettivi, nel proprio interesse. «La paura e la speranza» fanno risuonare corde anche a sinistra, a condividere le preoccupazioni e a confidare nelle protezioni: la sinistra non osa neppure più opporvi le ragioni dell’innovazione, anzi ci tiene a rassicurare quanti oggi non sono più tanto convinti che «liberalizzare è di sinistra». I sindacati che cinque anni fa portavano a Roma milioni di persone contro Berlusconi, oggi si fanno convincere a prendere per buoni i miraggi di salvataggio di un’Alitalia che essi hanno validamente contribuito a portare al fallimento.

Mai come ora ci sarebbero le condizioni perché gli innovatori presenti a destra e a sinistra negli schieramenti collaborassero tra loro, o guardassero alla parte politica che più dà garanzie di realizzare riforme innovatrici indipendentemente da lealtà a identità politiche. La questione televisiva, non solo a sinistra, ha avuto un ruolo di supplenza, ha riempito il vuoto di pensiero politico: e ora che è finita ci lascia identità politiche indebolite, ridotte quasi solo più a microaggregatori sociali.

Forse il simbolo della situazione in cui ci troviamo è proprio l’Onda, dove movimenti di destra e di sinistra, studenti, insegnanti e famiglie, tutti, per motivi diversi, contrari a un modesto progetto di riforma, si combattono tra di loro per finire su YouTube.
La guerra è davvero finita, ma non c’è nulla che assomigli a una Pace di Westfalia.

Franco Debenedetti è stato senatore con il centrosinistra per tre legislature

Antonio Pilati è componente dell’Autorità garante della Concorrenza e del mercato

Copyright 2009 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino



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