Tv, perché il monopolio ha prodotto Berlusconi
di Tonino Bucci, da Liberazione del 06 Agosto 2009
«La nostra tesi è che la questione televisiva e di rimando il problema politico del berlusconismo siano il frutto di anomalie antiche, di molto anteriori alla famosa discesa in campo, e che a tutt’oggi in gran parte perdurano». Il libro di Franco Debenedetti e Antonio Pilati, La guerra dei Trent’anni. Politica e televisione in Italia 1975-2008 (Einaudi, euro 19), fa lo stesso effetto di un’autoanalisi. I saggi dei due autori – l’uno, con un excursus politico alle spalle come senatore del centrosinistra per tre legislature, l’altro studioso di media e componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato – l’autocritica interna a una parte dell’opinione pubblica di sinistra italiana che non ha mai capito bene cosa fosse il berlusconismo e quando ha provato a farlo ha preso lucciole per lanterne. L’accusa, nella fattispecie, è che una parte maggioritaria della sinistra si è così attardata sull’idea che Berlusconi fosse la causa corruttrice del sistema televisivo, la fonte del degrado culturale e morale, da non rendersi conto che è stato piuttosto un sistema politico di antica data e un certo modo di gestire il potere ad aver reso possibile la nascita del berlusconismo e la crisi attuale della politica. A forza di confondere le cause con gli effetti non si è capito che non è Berlusconi a creare l’anomalia, ma che l’anomalia italiana ha creato il berlusconismo. Le responsabilità affondano nel passato di una storia trentennale.
«Quando si fa della questione televisiva il cardine dell’opposizione politica a Berlusconi, quando si concentra ossessivamente la battaglia politica sul conflitto di interessi, su presunte violazioni della Costituzione, sull’abuso di posizione dominante, quando tutto viene genericamente ricondotto a un degrado culturale ed etico indotto dalla televisione commerciale, si mira al bersaglio sbagliato, non si capiscono le ragioni del successo di Berlusconi e non si costruisce una solida alternativa alla sua politica. Sono queste le debolezze logiche e politiche dell’antiberlusconismo televisivo». Occorre risalire all’epoca del consociativismo, ai cascami del compromesso storico tra Dc e Pci, alla lottizzazione per focalizzare come mai in Italia non ci sia mai stata una riforma televisiva. E se pure la spartizione rappresentò una specie di risarcimento per la conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti, la possibilità per questi ultimi di avere una rete, alla lunga quell’equilibrio nella gestione del potere impedì di mettere mano sul serio a un settore così strategico per il governo della società come quello televisivo. Si finì, in altre parole, col lasciare un’autostrada aperta al craxismo, alla televisione commerciale e a quell’intreccio spregiudicato di politica e affarismo che avrebbe generato il berlusconismo, pur di non intaccare lo status quo della Rai. Il confine era segnato, da una parte e dall’altra due territori intoccabili: di qua le poltrone di viale Mazzini, di là la tv commerciale del Cavaliere, ognuno padrone in casa propria. Anche se non convincono affatto i toni eccessivamente apologetici con i quali Debenedetti descrive e costruisce la figura di Craxi come l’eroe in lotta contro la conservazione. Attribuisce al craxismo una spinta modernizzante «che mira innanzitutto alla crescita del mercato interno, dei nuovi gusti e dei nuovi consumi e quindi delle aziende che possono promuovere e soddisfare quelle nuove richieste». Certo, Craxi intuisce le potenzialità della televisione tanto nel campo della comunicazione politica quanto in quello della soddisfazione di nuovi bisogni simbolici. Ma è una “modernità” che si fa strada con i colpi inferti alla scala mobile, ai salari e in virtù di un’alleanza con i gruppi più spregiudicati dell’imprenditoria italiana. Un Craxi, insomma, che pur di uscire dall’angolo in cui il compromesso Dc-Pci l’ha spinto, è disposto ad allearsi con gli spiriti più animali. E’ un modernismo al quale bisogna fare la tara anche quello di Claudio Martelli quando da responsabile nazionale del Psi per la cultura e l’informazione se la prendeva – come ricorda Debenedetti – con «un’espansione della Rai abnorme, incontrollata» che invadeva «tutto lo spazio disponibile, soffocando la stampa, le tv private, e il cinema, quasi fosse un nuovo Minculpop».
Delle tesi di Debenedetti convince semmai di più quella che spiegherebbe l’anomalia televisiva italiana. Il problema fondamentale che è un imprenditore privato può oggi avere un enorme potere nella sfera pubblica senza dover rispettare i requisiti fondamentali di un servizio pubblico. La causa paradossale di questa situazione è che si è insistito nel pensare che l’unico servizio pubblico dovesse essere quello della Rai, cioè di una televisione controllata dallo Stato (anzi dai partiti) e che tutto il resto – la tv commerciale – potesse essere utilizzata da un qualsiasi imprenditore privato con il più assoluto arbitrio in quanto “non pubblica”. Il non intervento della politica (sancito dalla legge Mammì) ha permesso che Berlusconi fagocitasse uno spazio immenso lasciato libero. Non si è capito l’importanza di una riforma – e quindi non si è fatta – che imponesse anche all’imprenditoria privata di garantire e rispettare i requisiti fondamentali di un servizio che per definizione è “pubblico” come quello televisivo. Che sia in mano allo Stato o in mano a privati la televisione è comunque un mezzo che occupa lo spazio pubblico, che crea un immaginario collettivo. Il risultato? Un impero televisivo come quello di Berlusconi che detiene un incontrollato potere di penetrare nella sfera pubblica.
«È riconducibile alle scelte dell’immediato dopoguerra – scrive Debenedetti – se il sistema politico ha esercitato il suo condizionamento sul sistema televisivo. Se si dovesse individuare la ragione prima, l’ Urgrund , per cui la «questione televisiva» in Italia diede luogo a una guerra di logoramento, in cui soffrirono sia il settore pubblico – i valori che le forze politiche dovrebbero rappresentare – sia quello privato – gli interessi degli editori tradizionali che cercarono di entrare nel settore insieme a Mediaset – è proprio l’ambiguità tra impresa di stato e servizio pubblico, che deriva dalla collocazione della Rai nelle Partecipazioni Statali. Vendute le grandi società dell’Iri, liquidata l’Iri stessa, la Rai si è portata dietro anche nel nuovo assetto proprietario l’irrisolto problema della sua governance». Ha senso difendere il monopolio pubblico oggi, in una situazione di duopolio? O non sarebbe meglio costruire un pluralismo nel quale ogni soggetto sia tenuto a garantire un servizio pubblico degno di questo nome?
Nella seconda direzione va Antonio Pilati che si sofferma proprio sulla crisi del monopolio pubblico – un modello nato negli anni Venti con il sistema radiofonico (del quale la Bbc inglese è il caso più rilevante). «Il monopolio pubblico – scrive Pilati -comincia a incrinarsi dopo la metà degli anni Settanta e in meno di un decennio si dissolve in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale. Il periodo-chiave è quello compreso fra il 1975 e il 1977 quando un gran numero di emittenti private avvia trasmissioni terrestri su scala locale violando la riserva del servizio televisivo allo Stato. L’evento ha luogo per la prima volta in Italia e smuove l’immobilismo monopolista dei legislatori trascinando molti paesi all’apertura del mercato». In Francia nasce una pay tv nel 1984, seguita da due reti in chiaro un paio d’anni dopo (La Cinq e M6). Nel 1987 viene privatizzata Tf1, principale rete nazionale. In Gran Bretagna parte nel 1982 Channel 4, la seconda rete commerciale. In Germania fra il 1985 e il 1986 debuttano due emittenti nazionali, Rtl e Sat1. La rottura del monopolio pubblico però non è il risultato di un disegno consapevole, di un decreto politico. E’ piuttosto frutto di processi profondi di natura sociologica e culturale. «Deriva da una perdita di controllo, appare il frutto di circostanze impreviste che fanno emergere energie vitali lasciate per lungo tempo ai margini, poco utilizzate». In Italia la situazione è segnata dall’immobilismo di un quadro politico bloccato. A partire dagli anni Settanta un «sentimento di estraneità verso la politica e verso il suo modo di interpretare la cittadinanza si diffonde in larghi segmenti della società». Quell’immobilismo lascerà ampia libertà di manovra al circuito commerciale dove si incrociano la grande distribuzione e i produttori di beni di largo consumo. Il berlusconismo era alle porte.