Se Rischiatutto diventa l’ultima icona della sinistra

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di Antonio Rapisarda, su Fare Futuro Webmagazine del 30 Maggio 2009

È proprio tempo che la sinistra italiana faccia pace con la tv. Quella commerciale, per giunta. E se a dirlo non è un dirigente del Biscione, ma uno come Franco Debenedetti – industriale, ex senatore diessino e fratello di Carlo editore di Repubblica – è bene che da quelle parti si dia una sbirciatina al suo ultimo saggio La guerra dei trent’anni. Politica e televisione in Italia 1975-2008.

Basta leggere, infatti, una delle tesi del libro per far sobbalzare dalla sedia chi ha fatto della demonizzazione della televisione commerciale uno dei motivi della propria “differenza” antropologica, così come un tema sempre presente della campagna politica: «È arbitrario dedurre che il potere della televisione di influenzare gusti e scelte di consumo valga anche per i modelli di vita e per le scelte politiche». Un po’ tutto il contrario di quello che da quindici anni ripetono dirigenti politici e intellettuali, indicando come il successo della destra italiana e di Berlusconi sia, tre le altre cose, anche il prodotto di un “rimbecillimento” di massa eterodiretto dalla televisione. E qui Debenedetti picchia ancora più duro, spiegando come «la formazione delle scelte in particolare quelle politiche, dipende da processi enormemente più complessi di un rozzo determinismo pavloviano». E Mike Bongiorno, icona della televisione commerciale pioneristica, è assunto dall’autore proprio come paradigma per tracciare questo disprezzo verso l’immaginario popolare da parte del suo stesso mondo. Basta citare quello che Umberto Eco, uno dei bersagli della critica di Debenedetti, scriveva riguardo al conduttore televisivo: «Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello». Basta questo, insomma, per capire come ci sia, e non da ora, un problema culturale di una certa sinistra nel riuscire a comprendere quella che Debenedetti chiama «la necessità di comunicare» di quell’Italia normale che non vede, e non ha mai visto, il mezzo televisivo come un terreno di scontro ideologico. Da questo rifiuto, secondo l’autore, si può ricercare allora una delle cause della crescente distanza tra la sinistra e la gente e della difficoltà di entrare in sintonia con quei desideri e quei sogni che trovano spazio anche all’interno della rappresentazione televisiva. Dietro alla demonizzazione, quindi, non ci sarebbe stata un’elaborazione sulla capacità del mezzo, ma una vera e propria presa di distanza dai quei «valori nuovi» che la società esprime e che «la televisione commerciale ha saputo interpretare».

Alle spalle di questo atteggiamento, insomma, si celerebbe ancora un certo conservatorismo della sinistra nell’approccio al nuovo, così come rispetto a un contesto sociale che, almeno davanti al teleschermo, non accetta la “militanza del telecomando”. E questo istinto conservatore sarebbe ancora vivo e vegeto. Se è vero infatti che Walter Veltroni – per ribadire la centralità di alcuni valori – in piena campagna elettorale si è messo a rimpiangere addirittura proprio il Mike nazionale contro gli “immorali” pacchi della fortunata trasmissione Affari tuoi: «Almeno Rischiatutto e i quiz di Mike Bongiorno presupponevano una competenza. Per vincere dovevi sapere, dovevi aver studiato». Come a dire, non ci sono più i telequiz di una volta. E chi glielo dice adesso ad Umberto Eco?



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