Il vizio di criticare l’ editore e non il libro

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Di Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera del 15 Giugno 2009

Sarebbe triste se la validità di un’ idea dipendesse dal luogo in cui è stata pubblicata. O che il nome di chi la stampa ne inficiasse il valore, e ne compromettesse il senso. Peggio ancora, poi, se questo criterio, sbagliato, fosse adoperato a singhiozzo, un po’ sì e un po’ no, a seconda del capriccio e delle convenienze. Si scrive male se lo si fa per l’ Einaudi? Non dovrebbe essere così. Ma se si decide così, la decisione non può considerarsi legittima i giorni dispari e inapplicabile i giorni pari. E invece Giovanni Valentini, commentando su Repubblica le conclusioni del volume einaudiano «La guerra dei trent’ anni» di Franco Debenedetti e Antonio Pilati non può fare a meno di sottolineare, con sovrappiù demolitorio, che le tesi dei due autori, allo scopo di «dissimulare l’ anomalia televisiva italiana», avrebbero trovato generosa ospitalità «in un libro pubblicato dalla stessa casa editrice che appartiene al gruppo Berlusconi».

Valentini, che conosce con competenza i sottintesi maliziosi della scrittura giornalistica e che ha appena licenziato per Longanesi un libro, «La sindrome di Arcore», non può non immaginare il sillogismo che il lettore è indotto a fabbricarsi: i due autori scrivono di tv in modo non ostile a Berlusconi; Berlusconi è il proprietario del marchio Einaudi; ergo scrivono così per ingraziarsi l’ editore che graziosamente ha concesso loro l’ opportunità di pubblicare il libro. L’ attacco al libro diventa così attacco ad personam. Il processo alle intenzioni sostituisce il giudizio di merito. Si azzoppa l’ avversario intellettuale discreditando il luogo in cui ha espresso le sue idee. Non si fa. E non si dovrebbe neanche liquidare con tanta disinvoltura un marchio storico come l’ Einaudi. Purtroppo Valentini non è il solo ad imboccare questa scorciatoia. Se però si decide di percorrerla, occorrerebbe estendere il sospetto di una collusione con il Berlusconi einaudiano anche a opere come gli scritti autobiografici di Eugenio Scalfari, di cui lo storico Struzzo ha appena ripubblicato «La sera andavamo a via Veneto». O a libri di Andrea Camilleri, come se il combattivo antiberlusconismo camilleriano venisse depotenziato nel corso delle sue brillanti frequentazioni mondadoriane. O alla «Storia europea della letteratura italiana» che ha messo a frutto con Einaudi decenni di fervida militanza culturale di Alberto Asor Rosa. Tutti collaborazionisti perché hanno pubblicato i loro imprescindibili libri con la «stessa casa editrice che appartiene al gruppo Berlusconi»? Impossibile da credere. Meglio astenersi. Meglio criticare gli argomenti e non gli Struzzi. Meglio sottrarsi alla militarizzazione editoriale e rappresentare una casa editrice come un esercito carico di bocche di fuoco (i «torchi», come si diceva nella preistoria tecnologica). E discutere le tesi avversarie per quelle che sono. Dovrebbe essere semplice se non si decide di scrivere sempre con l’ elmetto calcato sulla testa del soldato. Dovrebbe.



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