Berlusconi e la concorrenza. Un dibattito a Milano

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Di Alberto Mingardi, da Chicago Blog del 18 Giugno 2009

Oggi alla Banca Popolare di Milano (grazie per l’ospitalità) abbiamo presentato “La guerra dei trent’anni” di Franco Debenedetti e Antonio Pilati, con Fedele Confalonieri, Ferruccio De Bortoli e Walter Veltroni. A inizio della presentazione, a mo’ di saluto, ho cercato di bofonchiare alcune cose che non si sono sentite, nel brusio generale. Poco male: le introduzioni di circostanza servono a dare agli ospiti il tempo di prendere posto. Primo commento impressionistico, sui protagonisti e non sui contenuti.

Confalonieri e Veltroni sono persone molto civili. Nota di colore: Veltroni chiama tutti per nome e infiora le frasi con citazioni da scaffale dell’Universale Feltrinelli in sconto 15%. De Bortoli è sempre un signore ed ha moderato con perizia, ma alla presentazione i due che hanno davvero parlato del libro sono stati gli autori. Franco, che è un candido, l’ha quasi detto lui stesso, buttando là che l’ambizione di un editore è di vendere ma che quella dell’autore è che si legga più che la quarta di copertina… L’ex segretario del Pd, infatti, ha sparato ad alzo zero più che sul libro sulla presentazione che ne avevo bofonchiato (ripeto: bofonchiato) io. Nella quale mettevo in luce non tanto perché il libro sia rilevante per il resto del mondo, ma perché è interessante leggerlo per chi veleggia sul bordo di questo blog: per l’analisi di Pilati della “liberalizzazione selvatica” dell’etere contro il monopolio della Rai (una “giungla” in cui ha messo ordine certo Berlusconi ma con lui e più di lui una “legislazione difficile” volta a mantere lo status quo, rispetto alla quale “la liberalizzazione spontanea ha perso i nemici e mantenuto i nemici” al volgere della prima repubblica) e per la lettura di Debenedetti della radicale incomprensione, della “rivoluzione televisiva”, da parte dell’universo politico-ideale che detiene tradizionalmente il monopolio dell’idea di progresso: la sinistra.
Veltroni in parte ha involontariamente difeso la tesi di Pilati, dimostrando come la discussione pubblica in realtà si spacca sul modo d’intendere il pluralismo: il “pluralismo interno” al monopolio pubblico (= lottizzazione) e il “pluralismo esterno”, sul mercato. Per WV, il pluralismo interno era meglio perché la qualità dell’offerta era migliore (c’era il maestro Manzi…), la Rai ha alfabetizzato l’Italia come la scuola pubblica, e la concorrenza è una race to the bottom a suon di tette e culi. C’è del vero, ma ha avuto – perlomeno secondo me – gioco facile Confalonieri a ricordargli il grigiore della Rai della censura.
La “liberalizzazione selvatica” non piace a Veltroni, che avrebbe visto bene una “liberalizzazione in serra”, portata avanti tenendo fermi i principi educativi che hanno informato la storia della tv di stato.
Su altre cose, Veltroni non aveva torto: il conflitto d’interessi, il sostanziale appiattimento dell’informazione in Italia, il fatto che le nuove tecnologie ci regalano un pluralismo infinitamente più ricco che in passato. Confalonieri sull’ultimo punto ha sostanzialmente difeso l’industria dei contenuti. Veltroni sul primo ha ignorato il punto di vista di Debenedetti: cioè che per risolvere il conflitto d’interessi la strada maestra fosse privatizzare la Rai (una privatizzazione che avrebbe dovuto fare la sinistra, perché è chiaro come il sole che Berlusca non la farà mai nella vita).
Un bel dibattito, che però ha lasciato in ombra i due messaggi cruciali del libro. La televisione commerciale come punto di scontro fra la sinistra e la modernità/ Debenedetti. La tesi per cui le liberalizzazioni “anarchiche”, sospinte dalla creatività imprenditoriale e non da un “dirigismo di mercato” volto a stimolare la nascita di nuovi competitors, tutto sommato sono le migliori/ Pilati. A margine della tesi Debenedetti c’è un altro tema: che è quello di come la televisione commerciale ha di fatto rottamato l’egemonia, creando il mondo “naturaliter berlusconiano” di cui parlava Bobbio, all’insegna di un nuovo immaginario. Ma sul punto, forse, più che leggere il bellissimo libro di Debenedetti e Pilati, vale la pena di rivedere “Il Caimano”.



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